Viviamo in un’epoca in cui fare cultura, promuovere conoscenza, è un atto di coraggio e di resistenza civile. L’ascolto reciproco, il confronto laico e il pensiero critico sono atti rivoluzionari. 

Quarant’anni fa negli Stati Uniti venne coniato lo slogan “non fidarti degli esperti!”. Quel virus ha viaggiato nel tempo ed è arrivato fino a noi, imponendosi in strati diffusi della nostra società. Oggi, come allora, viene alimentata la falsa nozione che – per citare Isaac Asimov – democrazia significhi “la mia ignoranza vale quanto la tua conoscenza”, facendo apparire quest’ultima come un male delle élite da combattere. 
Un rigurgito di rancore e di odio verso il sapere, lo studio. Una rivendicazione dell’ignoranza come virtù. 

Il problema della nostra società, invece, è che essa è dominata dal cultural divide, il divario culturale che è linguistico, di modalità, intellettuale, che mostra l’accentuarsi delle diseguaglianze: solo diffondendo la cultura si possono superare la marginalità, la fragilità, l’esclusione e il conflitto.
Dobbiamo farci promotori di una nuova mobilitazione che metta al centro il sapere come antidoto alla povertà, materiale e immateriale, e alla marginalità. 

Don Milani amava ripetere “L’operaio conosce cento parole, il padrone mille, per questo è lui il padrone”. Quelle parole servono oggi più che mai. Servono alle persone più vulnerabili, a chi è in condizioni di fragilità, a chi è ricattato, sfruttato. Servono per partecipare pienamente della vita pubblica, per scegliere, per riconoscere le menzogne che quotidianamente ci vengono proposte. Servono per contrastare le diseguaglianze sociali. Quelle parole servono per essere liberi. 

Promuovere conoscenza vuol dire anche far uscire la cultura dai luoghi in cui siamo abituati a pensarla, portarla nelle strade e nelle piazze, generare curiosità tra le persone, proporre percorsi di conoscenza innovativi, partecipati, coinvolgenti. 

Dobbiamo trasmettere il piacere della conoscenza e mostrare, concretamente, quanto questa sia legata ad ogni aspetto della nostra vita quotidiana, quanto incida nel lavoro, nelle relazioni, nello sviluppo economico, nel raggiungimento di migliori condizioni di vita personali e collettive, come aveva intuito Adriano Olivetti che sapeva fertilizzare comunità e creatività.

La cultura non è una parola fumosa, è un concreto stile di vita: un’economia giusta, una politica di uguaglianza, una società di persone libere. Questa è cultura, questa è concretezza. Questo è lo stile di vita che vogliamo essere e difendere.

Dobbiamo tornare a dare senso e significato alle parole, farci carico della forza e della fatica del pensare contrapposta allo slogan.